Opera prima di una regista neozelandese (suo un cortometraggio d'horror domestico con il mostro che usciva dal lavandino, visto a Cannes nel 90): per cui tutti a gridare alla novella Jane Campion. Il che rimane tutto da dimostrare, per chi ricorda l'incredibile impatto dell'esordio di SWEETIE. CRUSH vuol dire schiacciare, scontrare. Ma anche innamorarsi, infatuarsi. È quello che provoca la superbelloccia non proprio distinta Marcia Gay Harden, già notata nel mirabile MILLER'S CROSSING dei due Coen. Nei due sensi della parola: prima, provocando (deliberatamente?) un incidente automobilistico nel quale rimane gravemente invalida la sua amica Cristina. Dopo, facendo innamorare di sé uno scrittore-operaio, che le due giovani stavano andando ad intervistare.
Questa Nuova Zelanda (con i suoi geyser, i paesaggi tutto natura e fumo, un che di saturniano in quelle croste laviche che ribollono improvvisamente) deve scombiccherare non poco gli animi. Tanto e vero che persino la povera Cristina, tutta ammosciata e comatosa dall'incidente, sembra perdere in breve il proprio carattere di vittima della sbadataggine della perfida ammaliatrice. Le smorfie della rieducazione cominciano a parerci un po' inquietanti: fino ad un finale che non posso raccontarvi ma che non è proprio da Biancaneve.
Alison McLean, finalmente l'abbiamo capito, ama rigirarvi le carte in tavola. Un po' alla Pinter, quando si faceva illustrare da Joseph Losey i suoi servi mutati in padroni. Operazione interessante, forse un po' ardua per una giovane, anche se kiwi, debuttante.